Il mercoledì del torneo ATP di Stoccarda è un western di Sergio Leone ambientato su erba.
"Benoit? Benoit!»
«Oui?»
«You wanna play the match with those on?»
Il biondo abbassa lo sguardo, poi parla all’arbitro: «Yeah, they’re like leggins, it’s cold here».
Silenzio.
«That’s a problem?», si sincera il biondo.
«No problem, ok. TIME!».
La sveglia suona alle 7:00, nella stanza buia il mio unico pensiero è “Ti prego dimmi che non piove”. Apro le tende: non piove. Vittoria. Il cielo è grigio e l’aria decisamente frizzantina, la giornata potrebbe rovinarsi in un attimo ma sono fiducioso e credo nel meteo che mi annuncia che oggi non pioverà.
Mi vesto, formalizzo il check-in dopo l’entrata furtiva della scorsa notte, colazione abbondante e l’orologio mi dice che sono solo le 8:30. I cancelli della Mercedes Cup di Stoccarda aprono alle 10:00, ho tempo per passare al supermercato, più che altro devo cercare un negozio di elettronica perché senza un adattatore il mio portatile è solamente un oggetto di arredamento. 
“La macchina c’è, gli obiettivi anche, le batterie pure. Cavi e powerbank? C’è tutto. Serve altro? Magari una felpa e il biglietto per entrare? Magari”. Metto tutto nello zaino, chiudo la porta della camera, mi infilo gli auricolari e parto alla volta del club.
Cinque minuti dopo mi fermo in mezzo alla strada. Fa un freddo boia. Tredici gradi dice il telefono. Non scherziamo, saranno almeno al massimo dieci. Mi infilo la felpa, sette secondi dopo aggiungo l’impermeabile, che uno strato in più non fa mai male. Il viaggio è breve, qualche fermata di bus, la scritta “Mercedes Cup” appare ai miei occhi nella sua bella grafia bianca su sfondo nero. Entro senza problemi per la prima volta nell’arco della giornata, se ne conteranno parecchie altre, rimango a bocca aperta.
Il main Sponsor ha fatto le cose in grande: ci sono macchine tirate a lucido in grosse teche trasparenti, nuovi modelli da ammirare nella zona relax ed è tutto pulito e perfettamente in ordine. Ma la cosa più bella, senza dubbio alcuno, sono i campi in erba. Non li avevo mai visti dal vivo, potrei dormirci sopra se me lo chiedessero.
Non c’è tanta gente, almeno nelle prime ore del mattino, mi godo i campi secondari senza prestare minimamente attenzione al Centrale. Il programma è denso di partite, soprattutto a causa delle cancellazioni dei match nei giorni precedenti.
“Il Ritorno” è previsto per le ore 15.00, prima di allora gli altri match sul centrale non mi toccano. Piuttosto c’è Shapovalov sul Mercedes Court ma soprattutto Paire sul campo uno. Chiedo a un ragazzo quale siano gli altri due campi: «This one is the Mercedes, and that one is the number one court». Mi viene da ridere. 
Il campo uno è confinante con un altro campo, dove poco dopo Pouille inizierà l’allenamento, e non ha praticamente spalti. C’è un piccolo terrazzamento con delle sedie sdraio e alcune panchine.
Il Mercedes Court invece è leggermente più grande ma il principio è lo stesso. La cosa migliore è che, di fatto, puoi metterti a bordo campo senza che nessuno ti dica niente. Sui campi di allenamento c’è parecchio movimento, l’occhio spazia da Lopez a Shapovalov passando per Paire, che entra in campo in tuta, tira due calci alle palline, scivola, si rialza, abbraccia Feliciano e si siede a guardare gli altri. Un eroe.
C’è Milos Raonic che palleggia con Goran Ivanisevic: il primo è grosso come una casa, piuttosto fermo con i piedi ma colpisce fluido e sorride, stranamente . Il secondo, a 47 anni suonati, mette in mostra un fisico che probabilmente non ho oggi, figuriamoci alla sua età, la pallina gli esce dalle corde della racchetta ancora come una meraviglia.
Guardo l’ora, manca poco alle 11:00: Benoit, sto arrivando. Ore 12:00: la partita non è ancora iniziata. Motivo? Il campo uno ha delle zone fradice d’acqua, si son messi in movimento tutti i giardinieri e i tecnici della struttura ma ci vuole tempo a quanto pare, l’erba non vuole saperne di asciugarsi. Nell’attesa mi godo Shapovalov vs Gunneswaran, l’indiano mancino di quasi un metro e novanta che picchia come un buttafuori e porta a casa il primo set al tie-break nello stupore generale. Il canadese si aggiudica il secondo set per 6-2 e la sensazione è quella che finalmente si sia sbloccato dopo un inizio leggermente in salita. Nemmeno per sogno: i dieci anni di differenza per una volta si fanno sentire tutti, l’indiano non perde la calma e chiude 6-3 al terzo. Grazie e arrivederci.
Mi sposto di nuovo, prendo una sdraio a bordo campo e noto che il miracolo ingegneristico sul campo uno ha avuto l’effetto sperato: dopo aver messo degli enormi asciugatori il campo è pronto per giocare. E qui torniamo velocemente all’inizio di questo racconto. Paire, dopo aver terminato il riscaldamento iniziale completamente bardato a causa del freddo, si leva la felpa, rimanendo in pantaloni lunghi. E rimane così per tutto il primo set. Set che perde per 7-6 al tiebreak.
Questa cosa mi lascia particolarmente sconvolto, sopratutto per due motivi: il primo è che il suo avversario, l’americano Taylor Fritz, non ha la minima idea di cosa fare su un campo in erba. Ha un bel servizio, che effettua con un movimento veloce alzando poco la pallina per imprimere una bella accelerazione. E poi basta. Colpisce dritto e rovescio come per buttare di là pallina, sembra veramente che non abbia un’idea di gioco. A metà del secondo set dopo un errore piuttosto banale, lo si sente parlare a se stesso: “What am I doing?”. Bella domanda.
Il secondo motivo è esattamente l’opposto del primo. Paire sull’erba pare esserci nato. Lo spilungone biondo, infatti, fa quello che vuole: serve lanciando la pallina in avanti, già proiettato verso la rete, ha una sensibilità di tocco unica, non ha il dritto (ne tira uno su venti forse, gli altri sono solamente colpi d’appoggio) e nonostante ciò risulta competitivo a questi livelli. Forse perché con il rovescio fa letteralmente il cazzo che gli pare. Il tutto essendo a mani basse il giocatore più cool della storia.
Quindi, dopo aver polverizzato la racchetta ed essersi preso un warning, decide che è il caso di mettersi all’opera. Toglie i pantaloni lunghi e il cappellino che copre quella meraviglia bionda che contrasta perfettamente il barbone nero, torna in campo e vince i rimanenti set per 6-3, 6-2. L’ultimo è pura accademia.
Non gioca una pallina uguale all’altra, perdo il conto delle smorzate e delle brutte parole di Fritz, che non capisce più niente. Il colpo che non vedrà mai nessuno ma che mi ha fatto saltare dalla sedia arriva a partita praticamente finita. L’americano tira una seconda moderata al corpo, Paire decide che non vale la pena spostarsi e in qualche modo da fermo colpisce la pallina con un drop di dritto che si impenna. La pallina atterra nel campo avversario giusto il tempo di toccare l’erba per tornare immediatamente dalla parte del francese. I pochi spettatori gridano ed esultano, pure lui sembra felicemente sorpreso del numero che ha appena eseguito. A fine partita ringrazia il pubblico, si mette la borsa in spalla e attraversa il campo adiacente per uscire, fermandosi prima a saluta Pouille che si stava allenando mentre i due giocavano.
Fast forward veloce. Ore 15. Il ritorno del Re sul centrale è lì ad aspettarmi. Se siete anche minimamente interessati a questo sport saprete già come è andata a finire: ha perso il primo set malamente e ha vinto gli altri due più per demeriti dell’avversario che per meriti suoi.
MA vorrei concentrarmi su una cosa in particolare. A partita ormai finita, mi arriva questa domanda da un mio amico:
“Com’è stato vedere giocare live Roger Federer?”
In poche semplici parole: difficile da dimenticare.
Tennis giocato a parte, non ve lo dico nemmeno come colpisce tanto lo sapete già. La cosa che mi ha lasciato interdetto, che a vederla dal vivo dici “AH, OK”, è un’altra.  Federer è difficile da dimenticare soprattutto per la devozione della sua gente. Il campo centrale alle 14:50 era vuoto. Alle 15:00 si erano materializzate 5000 persone. A match finito, puff, scomparse di nuovo.
Dietro di me c’era un ragazzino che urlava ad ogni punto, vestito con maglietta rossa “Roger That”, che stringeva la bandiera svizzera e guardava quell’uomo colpire la pallina come se la propria vita dipendesse da quei colpi. Era svizzero? Era indiano. C’era una famiglia che arrivava dalla Grecia per vedere Roger giocare. Vedere giocare Federer è vedere giocare la Storia del tennis, inutile girarci intorno: è qualcosa da raccontare ai nipoti.
La partita in se è stata bruttina, la sensazione è che l’abbia persa l’uomo senza volto, all’anagrafe Miša Zverev. Questo simpatico nomignolo è stato partorito dalla mia mente dopo aver realizzato che nelle numerose foto scattate non lo si vede MAI in faccia. Tiene in cappellino così calcato sul viso che gli occhi semplicemente sembrano non esistere. Gioca bene Miša, uno degli ultimi eredi del serve and volley puro, uno che sull’erba può ancora dire la sua. Porta a casa il primo set facilmente 6-3. Lo svizzero ha parecchia ruggine da levare, il russo tedesco no.
Ha un vizio però che andrebbe punito con la pena capitale, soprattutto su quei campi: trascina il piede sinistro durante la battuta. Fa letteralmente i solchi nel terreno. Questa cosa mi fa impazzire. Sul centrale ci sono due segni netti creati dal trascinamento del suo piede. Batte sempre dalle stesse due posizioni e, ogni singola volta, trascina il piede sinistro grattando la terra. Nei set successivi qualcosa si inceppa, forse anche il fatto di essere un tedesco che a Stoccarda in quel momento non ha un singolo tifoso dalla propria parte pesa un poco, l’uomo senza volto si perde via in errori banali, doppi falli, giocate azzardate assolutamente non necessarie.
A fine partita ci sono grandi sorrisi e pacche sulle spalle. L’idea di un’altra sconfitta al primo turno per il secondo anno di fila nello stesso torneo è stata scongiurata. La storia di oggi potrebbe terminare anche qua, ma sarebbe ingiusto nei confronti del povero Pouille: finito il match di Roger, il centrale rimane vuoto anche quando gioca il campione in carica. A guardare il francese saremo un centinaio di persone. Vince in fretta Lucas, contro il giovane Molleker, un classe 2000 dalla mano pesante e che migliorerà. Ma oggi non lo impensierisce mai. Anche per lui, dopo metà 2018 da dimenticare, una vittoria facile ci voleva.
La giornata finisce in fretta, faccio giusto in tempo a comprare un paio di pantaloni lunghi perché il freddo è “for real”, trovare quel benedetto adattatore per il pc e a scoprire che ho scattato 607 fotografie. Arrivo in hotel, doccia e letto sono le ultime due cose da fare prima di tornare là.

You may also like

Back to Top